Dentro l’Europa – La Commissione ribadisce l’obbligo di indicazione del country of origin o place of provenance: ripercussioni sui rapporti con Israele?

Con la nota interpretativa C(2015)7834 dell’11 novembre 2015 la Commissione ha messo a sistema disposizioni già vigenti e disseminate in vari atti giuridici, delle quali ha chiarito il significato. Tali atti esigono che sia chiaramente indicato il country of origin o il place of provenance dei prodotti che fanno ingresso nel mercato unico UE. Spiega la Commissione che tale nota non introduce nessun obbligo giuridico nuovo ma – nel riflettere lo stato della legislazione rilevante in materia – “risponde a una crescente richiesta di chiarezza da parte di consumatori, operatori economici e autorità nazionali sull’impatto della normativa UE riguardante l’indicazione della provenienza dei prodotti”.

Un caso politico. Tale nota, individuando le regole obbligatorie nell’etichettature di prodotti perlopiù agricoli, non prevede nessuna misura che possa far pensare a un futuro embargo, ma la retorica a stretto giro montata in Israele ha ingenerato il timore che il provvedimento di Bruxelles sia solo il primo passo verso una campagna internazionale di boicottaggio e delegittimazione degli insediamenti, benché la stessa nota vada nel senso dichiarato, specifico e pressoché unico di orientare i consumi in maniera più consapevole possibile. “Si è trattato di una decisione prettamente tecnica” – ha precisato la Commissione – tesa a sostenere “mediante l’indicazione dell’origine del prodotto, le pratiche di acquisto informato” in un mercato che non si propone certo di diffondere questo o quello stigma sulle etichette, ma di perseguire virtuose dinamiche concorrenziali. Va peraltro annotato come appena l’1,5% dell’export agricolo d’Israele verso l’UE proviene dagli insediamenti oltre la linea verde. La montagna ha dato alla luce un topolino, se è vero che la Commissione aveva in precedenza allo studio misure ben più restrittive, riconducibili a una proposta globale di disincentivazione alla collaborazione dei Ventotto con i Territori Occupati: sanzioni che sarebbero giunte sino al bando complessivo dei prodotti degli insediamenti dal mercato unico. È del luglio 2013, infatti, un documento ben più duro di quello rilasciato a novembre: si tratta delle “guidelines on the eligibility of Israeli entities and their activities in the territories occupied by Israel since June 1967 for grants, awards and financial instruments funded by the EU from 2014 onwards” che suscitò la sdegnata reazione del governo di Netanyahu. Non se ne fece nulla, ma la posta in gioco era decisamente più sensibile di quella oggi sul tavolo: l’intento politico – espresso già nel 2012 dall’allora Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune dell’UE Catherine Ashton – s’indirizzava a un netto blocco delle relazioni con gli insediamenti, benché in parallelo con un’incentivazione della cooperazione UE-Israele nei settori dei trasporti e dell’energia, in un generale quadro di integrazione preferenziale dello Stato ebraico nel mercato UE.

Gli israeliani che commercializzano dai Territori Occupati studiano le mosse per sfuggire alla morsa dell’obbligo di etichettatura dei loro prodotti. Se l’Ue non intende riconoscere come parte dello Stato ebraico quei Territori che Israele occupa dal termine della guerra dei sei giorni nel 1967 (considerandoli semmai un ingombrante ostacolo al processo di pace nella regione, diversamente dall’approccio più flessibile sposato dagli Stati Uniti) a quanto prodotto in quella striscia di terra contesa andrà riservato un trattamento peculiare quanto all’etichettatura per la commercializzazione nell’Unione. Negli insediamenti che sorgono al di là della linea verde e corrono da Gerusalemme est, alla West Bank, sino alle alture del Golan, oggi risiede più di mezzo milione di israeliani. Come si apprende dalla nota, i prodotti provenienti dalla Palestina (che resta soggetto non statale per l’UE, mette in guardia la Commissione) dovrebbero contenere in etichetta una indicazione uguale e contraria a quella prescritta per i Territori. La risposta proveniente dai Territori (apprezzati produttori internazionali, va detto, di eccellenze agricole maturate al sole più orientale che irraggia il Mediterraneo) non segue il canale giuridico prescelto dalla Commissione, ma cavalca più che altro l’onda della propaganda politica (la destra parlamentare ha equiparato l’obbligo di etichettatura alla stella di David appuntata nei campi di concentramento d’Europa). Sul piano pratico, inoltre, come riporta di recente Newsweek, i piccoli e medi imprenditori vitivinicoli dei 237 insediamenti israeliani nei Territori avrebbero scelto di orientare le proprie bottiglie direttamente sul mercato internazionale, a loro volta boicottando quello europeo che imporrebbe l’indicazione fra parentesi, sull’etichetta del vino, della provenienza dai Territori. Tuttavia, nella proiezione verso nuovi mercati (soprattutto al di là dell’Atlantico, dove da sempre Israele gode di una condizione di gemellaggio politico-strategico) alcuni agricoltori dei Territori sembrano convertire a proprio vantaggio la regola imposta da Bruxelles: “Io sono fiero di essere israeliano – spiega al magazine statunitense un produttore degli insediamenti – quindi davvero non vedo il motivo per non rispettare le linee guida dell’UE. Perché dovremmo combattere e contro cosa? Io metterò l’indicazione della provenienza sull’etichetta e, accanto ad essa, anche una grande Stella di David!”. “La misura della Commissione avrà come unico effetto quello di unire le nostre scelte strategiche” fa eco un altro; e a pagarne le conseguenze sarà solo il mercato UE. Casse di vini dei Territori sarebbero già in partenza non solo per gli Stati Uniti e la Svizzera, ma anche – in via pilota – per Asia e Africa.

 

(ha collaborato il dott. Gabriele Rosana)