Dentro l’Europa – Safe Harbour: la Commissione prende tempo

Il 1° febbraio la commissione per le Libertà Civili del Parlamento europeo (LIBE) ha tenuto una seduta straordinaria in tema di trasmissione dei dati personali verso gli Stati Uniti in seguito all’annullamento dell’accordo Safe Harbour. Il Commissario per i diritti civili Vera Jurgova ha annunciato che la Commissione le ha conferito, congiuntamente al Vice Presidente per il mercato digitale Andrus Ansip, un mandato per redigere una “adequacy decision” e sbloccare i negoziati UE-USA. L’obiettivo dell’Unione è che gli Stati Uniti si vincolino ad assicurare ai cittadini europei lo stesso livello di protezione dei dati personali di cui godono i cittadini statunitensi.

L’annullamento della decisione Safe Harbour ha obbligato le società commerciali statunitensi (come Facebook, Microsoft, etc.) che si occupano della ricezione e del trattamento di dati sensibili a reperire misure alternative che assicurino comunque un certo standard di tutela. Ad oggi, il c.d. Gruppo di lavoro ex art. 29 (che si compone di un rappresentante per ciascuna Autorità garante nazionale dei dati personali ed è presieduto dal Garante europeo della privacy) ha individuato i due strumenti principali nelle c.d. Standard Contractual Clauses (SCC) e nelle c.d. Binding Corporate Rules (BCR) cui le società commerciali devono sottomettersi. L’uso di questi strumenti, che secondo il Gruppo di lavoro garantisce in via temporanea un’adeguata protezione, deve (doveva) però cessare entro il 31 gennaio 2016; scaduto tale termine, le Autorità garanti nazionali si riservano di dare esecuzione con ogni mezzo alla sentenza Schrems. Sarebbe insomma possibile ricorrere presso un Garante nazionale per impedire la trasmissione dei propri dati sensibili oltreoceano. L’obiettivo era quindi pervenire ad un nuovo accordo entro tale data, sì da rimpiazzare il “vecchio” Safe Harbour. Vi sarebbero però ancora dettagli non secondari da limare; così la Commissione ha di fatto preso altro tempo, obbligando dunque i Garanti nazionali ad una ulteriore proroga.

Non si conoscono con precisione i termini contenutistici dell’accordo, e neppure le persone materialmente referenti dei negoziati, né dalla parte degli USA, né per conto dell’Unione. I documenti disponibili sui siti istituzionali si limitano ad esaminare il contesto generale ed esporre le alternative possibili; sono reperibili per lo più nella sola lingua inglese, talvolta in inglese e francese. Indiscrezioni e dichiarazioni rese ai media parlano della possibilità di istituire un Mediatore per una composizione amichevole delle eventuali controversie, nonché dell’offerta, da parte della US Federal Trade Commission, di esaminare gli eventuali reclami da parte dei cittadini europei. Chi partecipa al negoziato o ne conosce più approfonditamente i termini sostiene che il “nuovo” Safe Harbour, qualora entrasse in vigore e fosse nuovamente oggetto di impugnazione davanti alla Corte di Giustizia, correrebbe un serio rischio di annullamento.

Si segnala che presso il Senato americano è in corso d’esame il Judicial Redress Act 2015 (già approvato dalla House of Representatives) a voce del quale, fra l’altro, i cittadini europei potrebbero fare ricorso a norma del diritto statunitense contro gli atti compiuti negli USA in violazione delle leggi sul trattamento dei dati personali. Il 28 gennaio è stato però approvato un emendamento che di fatto subordina tale possibilità alla sottoscrizione di un accordo in materia di trasmissione dei dati fra USA e EU, in assenza del quale – evidentemente – il diritto al ricorso costituirebbe un pericolo per la sicurezza nazionale statunitense. In breve: finché l’Unione non sottoscrive il nuovo Safe Harbour, i cittadini europei non avranno diritto a ricorrere al giudice negli USA per violazione delle leggi sui dati personali. La discussione finale in Senato per l’approvazione dell’intero atto è stata rinviata. A mezzo del portavoce che segue la materia, la Commissione ha fatto sapere di considerare inopportuno che interessi commerciali e diritto alla tutela giurisdizionale (peraltro riconosciuto a parità di condizioni ai cittadini americani in Europa) siano posti sullo stesso piano. Con estrema prudenza ha poi soggiunto che l’Unione “è chiaramente a favore della versione precedente” del Judicial Redress Act.

Colpisce che, pur trattandosi di una vicenda che interessa direttamente milioni di persone, nulla trapela in merito al contenuto, né si offrono all’attenzione dell’opinione pubblica elementi per una discussione consapevole. Nonostante la sentenza Schrems, la “preoccupazione” delle società commerciali rispetto alla tutela dei loro interessi sembra far più rumore, nel dibattito assai ristretto che oggi si prova a ricostruire, rispetto alla minaccia per i diritti fondamentali e al possibile, esiziale riverbero delle violazioni della privacy sul diritto alla libera manifestazione del pensiero e delle opinioni personali, anche politiche. Parimenti, il comportamento del legislatore USA non dimostra certo buona volontà in vista del nuovo accordo, né rispetto verso quei diritti che pure costituirebbero patrimonio comune di civiltà del mondo occidentale.